Venezia 1600: la patria dell’opera impresariale

Secondo la tradizione, la città di Venezia ebbe i suoi natali nel 421 d.C., in concomitanza con le migrazioni delle popolazioni limitrofe, legate principalmente a motivi economici: il 2021 ha rappresentato, pertanto, il 1600° anno dalla sua fondazione, ma i festeggiamenti si protrarranno fino a marzo 2022, seguendo l’articolazione del calendario della città che, almeno agli inizi, faceva coincidere l’inizio di un nuovo anno con la festa del Carnevale; in quest’ottica, si cercherà di rendere omaggio alla Serenissima ricordandola come patria di un teatro d’opera innovativo – quello impresariale – che vide la sua nascita a partire dal 1637.
Andromeda, Gl’amori d’Apollo e Dafne, Il ritorno d’Ulisse in patria, L’Arianna, Didone, Le nozze d’Enea e Lavinia sono solo alcuni dei numerosissimi titoli che popolarono le scene dei nascenti teatri veneziani nei primi decenni del XVII secolo. Ad un rapido sguardo sarà facile riconoscere personaggi provenienti dai complessi e affascinanti intrecci della mitologia ellenica e latina; è proprio a questo assunto – la nutrita presenza del mito nelle rappresentazioni veneziane delle origini – che si approderà con la seguente trattazione, non prima di aver tentato di spiegare le motivazioni che stavano alla base di tali scelte: al fine di delineare un profilo di quell’opera impresariale della quale Venezia è la patria, sarà necessario, infatti, gettare dapprima uno sguardo al contesto nel quale essa nacque e si sviluppò, consapevoli che «l’opera d’arte non è senz’altro isolabile dalla “contingenza” delle condizioni di approccio entro le quali ci appare» (Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, 1960).

L’opera impresariale

Il teatro musicale prese forma, in modo definitivo con l’inizio del XVII secolo e con qualche esperimento già in un passato più remoto – basti citare la Favola d’Orfeo di Angelo Poliziano, databile circa al 1480 –, nel mondo delle ricche e prosperose corti italiane del nord-Italia (tra le principali si ricordano Firenze e Mantova), come spettacolo encomiastico o d’intrattenimento da riservare al consumo esclusivo di una selezionata cerchia di intenditori, nobili per lo più, durante festività e celebrazioni importanti. Si trattava, allora, di un evento unico e irripetibile, che nasceva e moriva per l’occasione specifica all’interno della quale veniva collocato, ove era necessario conciliare tanto le complesse richieste della ristretta platea, quanto la volontà del signore della corte di mostrare ai rivali la potenza del proprio regno: ne conseguivano, quindi, spettacoli prolissi, adattati di volta in volta ai gusti del signore mecenate, e nei quali si riservava particolare attenzione ad un allestimento grandioso e spettacolare.

Il contesto entro cui l’opera musicale era destinata a trovarsi qualche decennio più tardi, quando, scavalcando i confini dei propri luoghi d’origine, iniziò a circolare in tutta la penisola e si stabilì a Venezia, differiva per motivi economici, sociali, produttivi, culturali. Il tutto può essere compreso partendo da una semplice constatazione: la lagunare Serenissima era una Repubblica, nella quale la ricchezza derivava dal commercio – e non dalla discendenza nobile, come accadeva nelle casate delle corti – e dove la società stratificata, non più circolare con a capo un sovrano o un signore, dava la possibilità all’economia di svilupparsi e fiorire. Esisteva, sì, la classe nobiliare, ma non possedeva il medesimo potere catalizzatore esercitato sulla popolazione delle corti: la città non prosperava in proporzione alla potenza di un ipotetico sovrano, bensì in relazione allo scambio tra merci, denaro e culture. La parola “scambio” è enfatizzata non a caso: l’opera, da emblema della superiorità di una classe nobiliare ormai in declino, diveniva ora merce di scambio nell’economia di una città libera. Si spiega così il nuovo sistema produttivo, a cui si deve l’appellativo di “opera impresariale” diffuso da diverso tempo negli ambienti accademici: un impresario affittava uno dei numerosi teatri, spesso appartenenti a ricchi signori; assumeva poi artisti e collaboratori, sulla base delle disponibilità economiche; vendeva abbonamenti stagionali ai cittadini benestanti e singoli biglietti d’ingresso a tutti coloro che avessero la possibilità di sostenere la spesa; ricavava, dopo aver saldato gli oneri dovuti, il suo guadagno. È importante notare un particolare rilevante: le stagioni musicali, a Venezia, non seguivano il corso dell’anno solare, bensì nascevano nel momento dell’anno più importante per la città, ossia il Carnevale – esse avevano inizio, pertanto, a novembre, e proseguivano fino a febbraio/marzo.

Opera “di corte” e opera “impresariale”

Osservando, adesso, la situazione da un punto di vista drammaturgico, sarà semplice intuire un’ulteriore presenza di sostanziali differenze tra l’opera “di corte” e l’opera “impresariale”. Per descrivere tali innovazioni ci si affiderà alle parole del compositore Benedetto Marcello il quale, nel suo pamphlet satirico Il teatro alla moda, delinea, con l’occhio di musicista del XVIII secolo, la situazione operistica del suo tempo; i suoi assunti sono ovviamente riferiti ad un’epoca successiva – quella di Vivaldi, per intendersi –, ma saranno sfruttati in quanto consolidamento di alcune tendenze originariamente veneziane:

Non dovrà il virtuoso moderno aver mai Solfeggiato, né mai Solfeggiare per non cader nel pericolo di fermar la Voce […]

Cantando poi l’Aria avverta bene, che alla cadenza potrà fermarsi quanto gli pare, componendovi sopra Passi, e belle maniere ad arbitrio […]

Dai pochi passi qui evidenziati emergono alcuni aspetti salienti.
In primis, il quadro fornitoci rispetto all’opera del Seicento e del primo Settecento rispecchia una tendenza, tipica del periodo, alla spettacolarizzazione e all’esaltazione degli eccessi: la varietas, quindi, occupava un posto particolarmente importante tanto nel momento della composizione del lavoro quanto in quello della sua esecuzione; tale aspetto non dovrebbe stupire, considerando l’influenza che il Carnevale aveva nell’ambiente veneziano del periodo dell’opera impresariale.
Secondariamente, è interessante notare la cospicua presenza, anche in relazione alla volontà di sorprendere un pubblico pagante, di espedienti mirati alla creazione di artifici canori e alla dimostrazione della bravura degli esecutori: in un linguaggio musicale non ancora codificato entro regole drammaturgiche definite e non ancora caratterizzato da una reale suddivisione tra recitativi e arie (piuttosto, i brani attingevano a stili diversi, tipici a volte di generi esterni: ne sono un esempio i madrigalismi, caratteristici ovviamente, dei madrigali), era semplice per l’esecutore “interrompere” il flusso dell’andamento, già molto libero, e modificarlo a piacimento, mettendo al centro le proprie capacità vocali.

Si torni adesso al testo di Benedetto Marcello per un’ultima, importante riflessione, con la quale si è aperta la trattazione: la presenza del mito sulle scene. Si legge:

Nell’esposizione dell’Argomento farà [il librettista] un lungo discorso intorno a Precetti della Tragedia, e dell’Arte poetica, riflettendo con Sofocle, Euripide, Aristotele, Orazione etc., aggiungendo infine che conviene il Poeta corrente abbandonare ogni buona regola per incontrar il Genio del corrotto secolo, la licenziosità del teatro […]

È pur vero, in sintesi, che la principale fonte alla quale attingevano i librettisti per i propri lavori era la mitologia classica, in accordo con la tradizione proveniente dalle corti italiane – nelle quali era prassi portare in scena soggetti per cui era possibile evitare una classificazione verosimigliante, al fine di giustificare la loro tendenza ad esprimersi mediante il solo uso del canto – ma di fatto emerge una tendenza alla licenziosità, giustificabile nell’ottica di una drammaturgia che bisognava fosse quanto più possibile proiettata verso l’esagerazione e la complessità. Si portavano in scena, pertanto, Giasone ed Ercole effeminati e protagonisti di complesse tresche amorose (si sta parlando, rispettivamente, di Giasone [Cavalli/Cicognini] e Ercole in Lidia [Rovetta/Bisaccioni]); Orfeo geloso e vendicativo, corredato da personaggi esterni rispetto al racconto che tradizionalmente lo vede protagonista (è il caso di Orfeo [Sartorio/Aureli]); divinità, come Apollo, in preda a passioni umane e accompagnate da schiere di personaggi nati dall’invenzione dell’autore (ne è un esempio Gl’amori d’Apollo e Dafne [Cavalli/Busenello]). I grandi protagonisti delle vicende mitiche perdevano, di fatto, le proprie caratteristiche intrinseche, che li avevano accompagnati per secoli, per diventare “gusci vuoti”, simulacri al servizio di un’estetica basata sulle le proprie prerogative e con al centro i propri obiettivi, chiaramente lontani da quelli che avevano mosso tragediografi e letterati antichi nella produzione di opere destinate a questi soggetti.

Un mondo vario e complesso, quello dell’opera impresariale delle origini, ma ben integrato con l’ambiente per il quale si sviluppò. Venezia, quale città libera e teatro di scambi commerciali e culturali, animata, come si è visto, costantemente da un sotterraneo spirito carnevalesco, non poteva che divenire culla di un nuovo modo di percepire la musica e l’arte in genere, che ha per sempre segnato la storia dell’opera nei secoli a seguire.

 

Maria D’Agostino