«Tutti assolvo e tutto oblio»: La Clemenza di Tito in Mozart

È a ridosso del Natale del 1769 che Leopold Mozart e il figlio Amadeus si trovano in Italia per il primo dei tre viaggi che li porterà nelle principali città della penisola. Partiti da Salisburgo il 13 dicembre del 1769, vi faranno ritorno solo il 23 marzo del 1771 potendo far sfoggio delle nuove onorificenze guadagnate dal piccolo Mozart – appena quattordicenne – durante il soggiorno italiano.

Proprio nella volontà di ricordare questo viaggio, gran parte delle città italiane – soprattutto quelle interessate direttamente dal Grand tour mozartiano – hanno da tempo intrapreso la strada di celebrarne la memoria, rispettando la specifica cronologia: Verona ha celebrato il 250° anniversario dalla visita dei Mozart con una serie di concerti, Milano celebrerà invece il prossimo 28 febbraio con il concerto “Mozart in Erasmus” dei Cameristi della Scala presso l’omonimo Teatro. Verona e Milano sono però solo le prime due tappe di un lungo viaggio che porterà i due Mozart in tante altre città che, come le prime due, decideranno di ricordare l’evento dedicando al compositore viennese numerosi concerti.

Se da una parte il proliferare degli eventi è d’intento commemorativo, dall’altra è da rammentare che il rapporto di Mozart con l’Italia – dipinto anche tra le righe del Vite di Haydn, Mozart e Metastasio di Stendhal – è ben manifesto nelle tante opere di teatro musicale che poggiano sulla scelta di librettisti italiani, tra i quali spicca Lorenzo Da Ponte – al quale attinse anche il grande Felice Romani – con il celeberrimo trittico de Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. L’anno successivo a quest’ultima opera, Mozart collabora con Caterino Mazzolà componendo nel 1791 La Clemenza di Tito che si rivela particolarmente significativa per offrire alcune chiavi di lettura intorno l’identità compositiva mozartiana da tenere presenti negli odierni e numerosi eventi ad egli dedicati – a questo proposito, è da segnalare che dal 3 aprile 2022 proprio La Clemenza di Tito sarà in scena stabilmente presso il Hessisches Staatstheater di Wiesbaden, Germania.

La Clemenza di Tito

La prima rappresentazione de La Clemenza di Tito si tenne al Teatro degli Stati di Praga il 6 settembre 1791 in occasione dei festeggiamenti per l’incoronazione di Leopoldo II a re di Boemia. Composta e rappresentata dunque nell’anno della morte di Mozart, si tratta della sua ultima opera di teatro musicale, subito successiva al Flauto magico – anche se quest’ultimo dovrà aspettare il 30 settembre per essere rappresentato. Il libretto di Caterino Mazzolà riprende quello di Pietro Metastasio messo in scena per la prima volta da Antonio Caldara a Vienna il 4 novembre 1734. Il dramma in tre atti è incentrato sulla figura di Tito, imperatore romano, che scampa alla congiura ordita da Vitellia e Sesto perdonando, con un atto di sbalorditiva clemenza, tutta la subdola corte in un gesto degno di deificatio. L’opera mozartiana si rivela particolarmente apprezzabile se messa a confronto con l’antecedente metastasiano; ciò può spingere lo studioso a costruire un discorso sul dialogo tra le seguenti coppie di autori: Caldara-Metastasio nel 1734 e Mozart-Mazzolà nel 1791.

Addentrandoci nell’opera di Caldara-Metastasio, appare da subito plausibile leggere dietro Tito – oltre alla figura di Carlo VI d’Asburgo, reale imperatore di quel momento – l’”ennesimo” Augusto. Nella scelta di comporre un’opera intorno all’imperatore si scorge infatti la necessità di riaffermare un modello già esperito dato che, per la mentalità dell’Ancien régime, non era possibile immaginare un futuro senza un Augusto. Ciò si verificava non perché l’imperatore fosse percepito come fondamentale in sé, ma perché il futuro non lo si era mai conosciuto senza. Così la società, fino alla Rivoluzione francese, ha proceduto attraverso una scansione ciclica: passato, presente e futuro si neutralizzavano fondendosi in rassicuranti «modelli esemplari» – per dirla con Reinhart Koselleck – da garantire e proteggere, come ad esempio proprio quello dell’imperatore e della sua perpetua successione dinastica.

Due luoghi del libretto di Metastasio possono essere indagati come sintomi di questa mentalità: l’aria di paragone Getta il nocchier talora intonata da Vitellia nell’undicesima scena del terzo atto, e l’andante maestoso Che del ciel, che degli dei intonato dal coro nella scena successiva. Mentre Vitellia è paragonata a una nave in tempesta, il coro esprime mirabolanti elogi per l’imperatore tra i quali, non a caso, fa capolino proprio il nome di Augusto. Se da una parte questi sono i risultati a cui si giunge nel 1734, appare prevedibile che ritornare su questa stessa opera nel 1791 – e dunque a Rivoluzione francese iniziata – non avrebbe potuto che portare a conseguenze diverse.

Tradizione vs Restaurazione

Spostandoci nella Clemenza di Tito mozartiana, una domanda è infatti d’obbligo: perché Mozart avrebbe dovuto, raggiunto l’ultimo anno della sua vita, riprendere un’opera di quasi sessant’anni prima ormai fuori repertorio? Se da una parte è lecito rispondere con l’occasione da assolvere – la celebrazione del passaggio dinastico da Giuseppe II a Leopoldo imperatore di Boemia –, dall’altra è possibile rintracciare in Mozart l’intenzione di realizzare un’operazione di matrice storica fondata sui concetti di «tradizione» e «restaurazione», così espressi da Carl Dahlhaus:

Tradizione e restaurazione non si possono considerare identici, se si vogliono evitare fraintendimenti. In primo luogo, la tradizione poggia sempre su una continuità ininterrotta che si è spesso paragonata a una catena che non si spezza. Una restaurazione è per contro il tentativo di rifarsi a una tradizione che si era interrotta. […] In secondo luogo, le restaurazioni, a differenza delle tradizioni, sono interamente frutto di riflessione. […] Le restaurazioni sono minate internamente dalla contraddizione per cui l’originale deve venir restaurato nella sua forma intatta per mezzo di una “fatica del concetto”. Esse sono, per esprimerci con Schiller, “sentimentali”, mentre le tradizioni sono “ingenue”. Una tradizione, fino a quando non è intaccata, si presenta con carattere di ovvietà, non ha bisogno di nessuna giustificazione.

Sembrerebbe che ciò che Mozart propone possa avere le sembianze della restaurazione di una tradizione «interrotta» essendo, come detto, l’opera di Caldara-Metastasio ormai fuori repertorio; ma a guardare bene, le cose appaiono più articolate.

Rintracciando nell’opera di Mozart-Mazzolà gli stessi due luoghi indicati in quella di Caldara-Metastasio, notiamo un primo cambiamento di statuto: l’aria Getta il nocchier talora è infatti sostituita dall’aria Non più fiori, sempre un rondò e sempre intonato da Vitellia, ma non più nella castrante e rigida tipologia dell’aria “di paragone”. Già a partire dalle tre – non eccelse – strofe di Mazzolà intonate da Vitellia nella quindicesima scena del terzo atto, si nota infatti la volontà di derubricare la responsabilità del risultato al compositore, allontanando così la logocentrica visione metastasiana:

Non più di fiori
vaghe catene
discenda Imene
ad intrecciar.

Stretta fra barbare
aspre ritorte
Veggo la morte
Ver me avanzar.

Infelice! Qual orrore!
Ah! Di me che si dirà?
Chi vedesse il mio dolore,
pur avria di me pietà?

Lungi dall’assecondare il testo, Mozart dunque rifugge in musica la fissità metrica restituendoci al contrario una corsa verso la fine, come se l’aria fosse inclinata – e noi con lei – in avanti, verso il futuro; l’ascoltatore che crede di sapere cosa sta ascoltando rimane per questo deluso dalle attese non soddisfatte, al contrario aperte sull’ignoto in divenire che ora provoca angoscia. Al posto della prevedibile e ciclica storia d’Ancien Régime – ben esemplificata nell’altrettanto prevedibile e ciclica aria di paragone –, qui Mozart intercetta i tempi nuovi della modernità «temporalizzata in un processo, in cui è dovere umano intervenire agendo», come disse Koselleck. In altri termini, Mozart ci sta dicendo che sta cambiando il modo di guardare al futuro e, nel farlo, mette in critica dall’interno la tradizione dell’opera seria.

Nella scena successiva però decide di mantenere identico il coro metastasiano che, come accennato, allude ad Augusto:

Che del ciel, che degli Dei
tu il pensier, l’amor tu sei;
grand’Eroe, nel giro angusto
si mostro di questo di:
ma cagion di maraviglia
non e già, felice Augusto,
Che gli Dei chi lor somiglia,
Custodiscano cosi.

In questo caso Mozart opta infatti per una restaurazione stricto sensu: dato che la tradizione del rito d’incoronazione avviene da sempre uguale a se stessa e dovendo ricelebrarla in onore di Leopoldo II, storicizza la musica restaurando uno stile volutamente arcaico, per così dire, “alla Händel”. La solidità del potere monarchico si mostrava infatti tanto garantita quanto più riusciva ad apparire immutata, sovrastorica, inscalfibile – e la musica ne doveva essere ora testimonianza. Un’operazione di questo tipo ha però tutto il sapore del «peso del concetto» e del «sentimento» di cui vive, per Dahlhaus, una restaurazione: non un’imitazione al fine di sembrare simile a o smuovere al ricordo di, bensì la volontà mozartiana di muoversi dentro le strutture della storia usando quelli che saranno gli strumenti dello storicismo.

Così il «Tutti assolvo e tutto oblio» pronunciato da Tito nell’ultima scena del libretto di Metastasio – e non caso conservato da Mozart in quello di Mazzolà –, più che un atto di bontà ha ora tutto il sapore di un manifesto storico da cui prendere le distanze: non c’è «oblio» nella modalità operativa di Mozart né assoluzione del passato; al contrario, se da una parte si intercettano – in Non più fiori – i tempi nuovi della modernità sperimentandone le innovazioni, dall’altra si restaura – in Che del ciel, che degli dei – la tradizione dell’opera seria offrendole però nuovi fondamenti.

Ne La Clemenza di Tito – divenuta ora dispositivo storico passato e futuro dunque si intrecciano in un rapporto dialettico che trasforma un’operazione di “recupero antiquario” in un’opera di giuntura attraverso la quale Mozart si ritaglia – e ci restituisce – un pezzo nuovo di storia della cultura attraverso la musica.

 

Matteo Chiellino