«Va tacito e nascosto»: Il Giulio Cesare in Egitto di Händel

Il 23 febbraio scorso si è celebrato il 337° anno dalla nascita di Georg Friedrich Händel e, in ossequio a questa ricorrenza, il Teatro di Pisa ha deciso di mettere in scena in quegli stessi giorni il suo Giulio Cesare in Egitto.

Rappresentata per la prima volta al King’s Theater di Londra nel 1724, Giulio Cesare in Egitto si basa sul libretto “premetastasiano” di Nicola Francesco Haym che riprende a sua volta l’omonimo di Giacomo Francesco Bussani, messo in scena da Antonio Sartorio nel 1677 a Venezia. Interessante è segnalare la presenza della lingua italiana anche nel libretto londinese, scelta in Händel non inusuale come indicato anche dalla collaborazione con il poeta Paolo Rolli. Tra i tanti numeri händeliani degni di approfondimento, l’aria Va tacito e nascosto – intonata da Cesare nella nona scena del primo atto – è idonea da una parte a introdurci nell’operismo händeliano e dall’altra a indagare alcuni suoi punti nevralgici, come ad esempio il problema dell’identità drammaturgica dei personaggi.

Prima di tutto, occorre precisare che l’opera del Settecento rappresenta il momento aureo del belcantismo ed è attraverso questa lente che può essere esaminata la qualità della sua drammaturgia configurata proprio intorno alla vocalità. Non tanto dunque un’analisi che nasca e rimanga sul libretto o sulla partitura, quanto invece un’indagine che proceda al rovescio: partendo da ciò che si ascolta e arrivando solo dopo alle sue fondamenta costitutive. A causa di tale preminenza vocale, l’opera del Settecento è stata additata fin dai tempi di Benedetto Marcello come svago senza contenuti e questa lettura ha proseguito fino ai nostri giorni. Il Giulio Cesare in Egitto però, nonostante si basi sulla “scomoda” opera del secondo Seicento, non si esaurisce nell’edonismo vocale e di questa impossibilità la suddetta aria ne è esempio calzante.

Va tacito e nascosto

Va tacito e nascosto – composizione tutta settecentesca poiché assente nell’opera di Sartorio –, è un’aria di paragone tra Cesare e, diremmo in prima battuta, la caccia: nonostante Pompeo fosse per Cesare un nemico, quest’ultimo rimane così angosciato dalla testa mozzata del rivale offertagli da Tolomeo da temere la stessa sorte quando il primo gli propone un incontro. Attraverso la lente della vocalità e di ciò che sentiamo, notiamo però che la situazione semantica è più sottile di quanto non sembri.

Il corno – che potremmo definire concertante – apre l’aria dettandole, attraverso la sua melodia idiomatica, il carattere guardingo e circospetto di una vera e propria battuta di caccia. Tale melodia – “non umana” poiché nata dalle caratteristiche organologiche dello strumento –, è integralmente ed inaspettatamente mutuata da Cesare. In quel momento il dictator diventa corno poiché copia la sua scomoda identità melodica: Cesare ha inteso talmente bene di ritrovarsi in terreno di caccia da esserne divenuto parte integrante. Nello specifico, cantare come se fosse corno è il sintomo del dispiegamento dell’indagine psicologica che Cesare compie su stesso mentre è in scena: è un modo per rispondere alle domande «Chi sono? – Dove mi trovo? – Cosa ci faccio qui?»; e quest’aria diventa concretizzazione del suo andare in cerca delle risposte: mentre lo dice a sé, lo dice a noi.

Se dalla parte dell’individualità psicologica del personaggio si attiva tale dialettica, dalla parte dell’ascoltatore la situazione è forse persino più netta: il pubblico inglese ha uno strettissimo rapporto con la caccia e il suono del corno è immediatamente associato ad essa; Händel lo sa bene ed usa la storia della cultura come accelerante per il processo di significazione musicale nel quale Cesare si ritrova e del quale deve rendersi – e renderci – conto. Infatti divenuto corno, fa propria anche la conseguente condizione di pericolo: noi sentiamo che la sente e supponiamo per questo che adotterà delle premisure rispetto al rischio.

Pur senza aver parlato ancora del libretto di Giulio Cesare in Egitto, notiamo che le nostre attese drammaturgiche sono state già orizzontate dalla sola vocalità la quale dimentica il vacuo edonismo settecentesco per essere al contrario vettore semantico e contenutistico insostituibile che guida tanto la psiche del personaggio quanto quella dell’ascoltatore: Händel configura con le note tutto ciò che il libretto dopo specificherà con le parole. L’ascoltatore non solo sa già della caccia alla prima nota del corno, ma crede anche che Cesare non sappia di essere in trappola; subito dopo però – ascoltando il corno dalla voce di Cesare –, capisce che lui l’ha sentito più di noi tanto da diventare corno: andiamo ricalibrando le nostre attese capendo che Cesare non è «preda» ma parte strutturale di quella caccia immaginaria. Cesare si auto-avvisa: segnala a noi e a se stesso la nuova posizione che l’intreccio narrativo gli ha riservato e, per questo, potremmo parlare di un corno quasi scenico – non suona solo per l’ascoltatore, ma è udito anche sul palco di quel delicato teatro mentale su cui Händel sta costruendo la sua caccia immaginifica.

Passando dalla vocalità alle sue fondamenta, l’aria è organizzata su due terzine di settenari in rima replicata/ripetuta [ABC ABC] con il terzo e il sesto tronchi che “danno un nome” ai contenuti già individuati dalla musica.

Va tacito e nascosto,
quand’avido è di preda,
l’astuto cacciator.

E chi è mal far disposto,
non brama che si veda
l’inganno del suo cor.

Nella prima terzina A – ripetuta poi secondo la forma musicale ABA1 –, le intuizioni contenutistiche, espresse dalla musica attraverso i meccanismi prima descritti, trovano centramento: Cesare tace e si nasconde – aggiungiamo noi dietro un corno – posizionandosi tra l’esser «preda» e l’esser «cacciator». L’analisi piscologica della situazione verrà approfondita poi in B, sezione occupata dalla seconda terzina: ora Cesare smette di essere corno perché è il corno stesso a tacere eliminando la possibilità per Cesare di nasconderglisi dietro e obbligandolo così a venire allo scoperto. Infatti venuto meno il meccanismo del mascheramento identitario, tutto cambia anche dal punto di vista musicale: carattere, tonalità, andamento, orchestrazione; la voce di Cesare è finalmente liberata dalla stretta griglia dell’idiomaticità del corno tanto che va persino perdendosi in quasi ad libitum finale – Cesare si trova in una bolla in cui è libero di esprimersi, e lo sentiamo. Il testo mette a fuoco questi contenuti con una terzina che ha tutto il sapore di un’amara quanto lucida constatazione interiore sulla condizione che lo agitava nella prima strofa. Ma bruscamente arriva A1 e Cesare ripiomba «tacito e nascosto» dietro il corno con il quale intratterrà ora un dialogo più profondo – sarà meno corno e più Cesare – alla luce del risultato ermeneutico ottenuto in B durante la sua “assenza” dalla caccia.

È chiaro ora si tratti di un’aria di paragone tra Cesare e un corno: il dictator non è né «preda» né «cacciator» – è solo corno. Infatti mentre il libretto indica gli altri due ruoli, lascia invece alla musica il compito di delineare la dorsale poetica: è solo la musica che parla stricto sensu del corno e, dunque, del senso di ambiguità drammaturgica di cui Händel carica Cesare. Infatti se da una parte il corno è in mano al cacciatore, dall’altra è il corno stesso a controllare la caccia avendo il potere di porre inizio e fine ad essa con il suo suono. Allora la vocalità-corno è sintomo non solo del ruolo ambiguo che Cesare assume durante la caccia fantastica, ma anche della polisemanticità della sua identità drammaturgica: Cesare sa di essere sotto scacco di Tolomeo ma al tempo stesso, poiché conscio della propria condizione, crede di potergli sfuggire riportando a sé il controllo della situazione.

Il personaggio händeliano

Questa ambiguità di cui Händel carica in tutta l’opera Cesare è figlia di un’ambiguità più grande a cui apre l’opera del Settecento: il problema dell’individualità drammatica dei personaggi. Infatti se nel secondo Seicento i personaggi erano tendenzialmente degli involucri vuoti e se nell’Ottocento acquisiranno al contrario una fisionomia identitaria quasi monolitica, nel Settecento – e in particolar modo in Händel – non è possibile dare risposta inequivoca. Non è troppo chiaro infatti se i personaggi siano serbatoi di affetti o invece personaggi moderni: Händel vuole creare il suo Cesare dall’identità complessa ma non siamo sicuri che il risultato confermi l’intenzione – sono personaggi che aspirano ad un’individualità moderna che va perdendo però coesione sotto i colpi di un intreccio che li riposiziona continuamente. Un’ipotesi di risoluzione è data da Winton Dean il quale trae l’individualità drammatica di un personaggio dalla somma delle sue arie: il problema è che i personaggi si caratterizzano anche per ciò che non dicono, per la loro assenza sul palco, soprattutto in un teatro mentale come quello di Händel; la loro individualità è dunque disseminata in luoghi che non toccano solo direttamente quel personaggio ma anche retroattivamente o per difetto.

Infatti se è vero che mettendo insieme le arie Empio dirò tu sei (I, 3) e Va tacito e nascosto (I, 9) Cesare risulta veemente e calcolatore, al contrario è sempre pronto a cambiar bandiera in Non è sì vago e bello il fior (I, 7) per l’instabilità emotiva che gli procura Cleopatra. Chi è allora Cesare in quanto personaggio händeliano?

Potremmo dire che la vocalità negativamente edonistica del Settecento, in Händel viene mutata di senso verso la volontà di costruire musicalmente un’individualità drammatica dei personaggi che anticipi i contenuti che verranno poi specificati dal libretto; però, dati i tempi precoci, i personaggi non riescono a risultare convincenti nella loro modernità. Il personaggio händeliano dunque si ritrova a vivere durante la narrazione una serie di situazioni in cui è sempre costretto a verificare se stesso profilando di volta in volta diversi tagli della stessa identità drammatica la quale però, a causa delle scomode posizioni richieste dall’intreccio, va frantumandosi.

In conclusione, l’aria Va tacito e nascosto da Giulio Cesare in Egitto permette di compiere un viaggio in tre tappe nella poetica operistica di Händel, dal generale al particolare: dopo essersi smarcata dal mero canto edonistico, la drammaturgia musicale händeliana si rende capace di costruire con la sola musica un altro teatro – diremmo mentale – che, oltre a restituire specifici contenuti, fotografa l’individualità drammatica dei personaggi nel loro andare verso la modernità.

 

Matteo Chiellino