«Non mi sento un postmoderno»: NeoClassica intervista Vittorio Montalti
Fra il 2018 e il 2019 i teatri d’opera italiani hanno deciso di portare in scena le opere di un giovane e capace compositore: Vittorio Montalti. Le sue Ehi Gio’, accolta con sincero entusiasmo dal Maggio Musicale di Firenze a ottobre scorso, Un romano a Marte, che si vedrà al Teatro dell’Opera di Roma nel novembre del prossimo anno, e Le leggi fondamentali della stupidità umana di nuovo a Firenze a maggio 2019, sono testimonianza di una tradizione melodrammatica che guarda al nuovo con sicuro interesse. Seppure lo spazio per l’opera contemporanea sia di certo risicato, e i teatri preferiscano puntare sulla certezza offerta dai grandi compositori della nostra epoca – Francesconi, ad esempio, o Salvatore Sciarrino – Vittorio Montalti è riuscito a guadagnarsi un meritato posto sui palcoscenici della penisola. Il giovane compositore, in ogni caso, preferisce non parlare di “postmodernità” quando si tratta della sua musica, per usare un termine molto abusato, tanto quanto si sente di non approvare il termine di “melodramma” per i suoi lavori teatrali. La sua è un’idea musicale innovativa, certo figlia dell’insegnamento di alcuni grandi compositori italiani – è stato allievo di Solbiati, Corghi, Fedele, per dirne alcuni – ma comunque completamente immersa nel panorama musicale contemporaneo, e in ogni caso non indifferente ai più disparati generi, stili ed epoche. Vittorio Montalti, nato a Roma nel 1984, ha comunque già esplorato molteplici ambiti sonori: oltre all’opera, si trovano nel suo catalogo brani per orchestra, per quartetto d’archi, per trio con pianoforte, per pianoforte solo e soprattutto molta musica elettronica. Il suo rapporto con la parola è poi molto vario, – in questo aiutato dal fedele librettista Giuliano Compagno -, a partire dai titoli, brillanti, icastici e ponderosi allo stesso tempo; se di Ehi Gio’ si è già detto, basti ricordare ancora L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento (da Georges Perec), o Il giardino dei sentieri che si biforcano, per violino e pianoforte. A NeoClassica quindi è interessato capire un po’ di più della personalità di Vittorio Montalti.
NeoClassica: Partiamo dalla tua opera più recente, Ehi Gio’ – Vivere e sentire del grande Rossini. È stata scritta e pensata come omaggio al pesarese nel centocinquantenario della morte. Non sembra comunque essere un classico “hommage à…” quanto piuttosto un aggiornamento della tradizione melodrammatica, nella quale la musica di Rossini, e Rossini stesso, sono solo uno spunto, un pretesto.
Vittorio Montalti: Sì, in effetti in Ehi Gio’ su cinquanta minuti totali c’è solo un minuto e mezzo di musica di Rossini, e anche quel minuto e mezzo è come non fosse suo. Quando in una mia partitura inserisco una citazione la intendo sempre come una completa rilettura personale; si potrebbe fare riferimento al lavoro di Francis Bacon su Velazquez [Ritratto di papa Innocenzo X, n.d.r.]: il pittore prende l’originale però in qualche modo la deforma secondo la sua sensibilità e la sua cifra. Le note sono quelle di Rossini, ma le tecniche e i processi compositivi sono i miei. È quindi una citazione che non è più una citazione, anzi la considero più musica di Vittorio Montalti che di Gioachino Rossini. Certo Ehi Gio’ non è un’opera sul Rossini compositore, sul quale non c’è molto da aggiungere, ma sul Rossini uomo, su tanti aspetti della sua vita e principalmente sul perché ha smesso di scrivere e sull’ipotesi avanzata da qualcuno che fosse depresso.
NC: Ci viene allora da chiederti quale sia il tuo rapporto con la musica del passato e soprattutto con l’opera lirica della tradizione: amore, negazione, cos’altro?
VM: È una domanda che mi pongo tutti i giorni. Ehi Gio’ è la seconda opera che ho scritto e adesso ne sto scrivendo altre due – quindi ormai è il mio pane quotidiano. La prima risposta che mi sono dato mentre scrivevo la mia prima opera è arrivata guardando le differenze fondamentali fra melodramma e teatro musicale. Nel primo c’è un libretto su cui si basa la drammaturgia musicale e ci sono dei personaggi chiari ed evidenti in scena, che emergono nel tessuto musicale; nel secondo, che è più astratto, la drammaturgia può non essere più dettata dal libretto ma uscire dalla musica stessa e i personaggi possono addirittura sparire. Quello che faccio sta un po’ a metà fra le due cose, cercando di attualizzare entrambi i campi; in Ehi Gio’ ad esempio ci sono sia dei cantanti, sia degli attori sia un attore-performer con un ruolo completamente astratto. Se poi penso in generale all’intonazione di un testo – un problema al quale lavoro quotidianamente – trovo che nella mia musica non ci sia spazio per il dialogo cantato, anzi preferisco un tipo di canto per così dire “frontale”; se è vero che ci sono duetti, terzetti eccetera si tratta però di meccanismi nei quali il canto e le voci si sovrappongono, si fermano, si incrociano così da sviluppare la drammaturgia musicale. Nelle mie opere l’azione non procede per dialoghi, magari impostati a partire da un libretto, ma da altri dispositivi che scrivo partendo proprio dall’idea che ho io del soggetto.
NC: Siamo ben lontani da un’idea “classica” del melodramma, quindi.
VM: Il problema sta tutto nel rapporto fra testo e musica, e nelle soluzioni che si riescono a trovare. Recentemente guardavo l’Orfeo di Monteverdi, e nemmeno là i personaggi parlano fra di loro, o meglio, non è quello il centro dell’azione. Sono più dei quadri singoli, sviluppati attraverso un canto “frontale” all’interno del quale si sviluppa la trama. Non mi sento quindi in rottura con la storia, anche se è vero che con mezzi nuovi cerco di attualizzare tecniche compositive già impiegate nella tradizione. Si potrebbe pensare che da parte mia non ci sia atteggiamento critico nei confronti della tradizione, e che dunque prenda un po’ di qua e un po’ di là, come non ci fossero più barriere, utilizzando “tante scritture diverse”, come mi è stato detto una volta. Invece tutto quel che scrivo ha un significato oggi come anche nei confronti della storia e il modo in cui scrivo non è collagistico, ma anzi è il risultato di un ripensamento di tante modalità compositive diverse applicate alla drammaturgia di ciascuna opera. Non mi sento un postmoderno, insomma.
NC: Quello di Vittorio Montalti è dunque un modo di spostarsi fra melodramma e teatro musicale nel suo senso più ampio, utilizzando le risorse della tradizione ma senza chiedere la benedizione della storia. Che ne pensi allora del panorama musicale contemporaneo, che allo stesso modo si sposta fra poli opposti e nel quale è molto ambigua la distinzione fra colto e popolare, fra musica e letteratura? Negli ultimi anni si è visto il Nobel a Bob Dylan e il Pulitzer a Kendrick Lamar, ad esempio – e viene in mente anche Berio che ascoltava i Beatles. Ma anche tu, che guardi molto al passato – parlavi di Monteverdi – porti in scena testi più che contemporanei, come quelli di Giuliano Compagno.
VM: Giustamente citate Berio: ho da poco riascoltato Laborintus [per voci, strumenti e nastro magnetico (1965), n.d.r.], ed è pazzesco osservare come dentro ci sia di tutto. C’è Berio, ma c’è anche Dante, Sanguineti, c’è la big band, c’è l’elettronica che sembra più attuale che mai e che sembra scritta oggi. Berio per me è un punto di riferimento nel modo di porsi di fronte alle altre musiche. Perché aveva le orecchie aperte a 360 gradi sulla musica contemporanea, e allo stesso tempo aveva una cognizione della storia veramente profonda. Personalmente, quello che cerco di fare è lo stesso: oltre a proseguire nello studio e nell’ascolto della musica “colta” sono molto preso da tutto il panorama rock ed elettronico, che seguo anche andando, da spettatore, in molti concerti. Sono molto interessato a tutta una serie di aspetti del rock e dell’elettronica che già ritrovo nella mia musica o che vorrei fare entrare nella mia musica, certo in maniera filtrata, per non mettermi a farne delle brutte copie.
NC: Puoi farci dei nomi?
VM: Ultimamente ascolto Ryoji Ikeda, ad esempio, oppure Ben Frost, e ho appena comprato i biglietti per il concerto di Bon Iver. Quel mondo mi interessa perché ritrovo a posteriori dei meccanismi – sintesi granulare, distorsione del suono ecc. – che ormai utilizzo da cinque o sei anni. Ciò non toglie che io continui a studiare la composizione tradizionale, l’armonia, il contrappunto – che fra l’altro insegno [al Conservatorio di Potenza, n.d.r.] – e che continua ad essere una grande fonte di stimoli. Ma ritrovo nei concerti rock o di elettronica anche un tipo di performatività con la quale spesso sono in dialogo; in Ehi Gio’ ad esempio ero io stesso a suonare la parte elettronica in teatro con gli altri musicisti. Ed è questo un tipo di espressività musicale che non posso osservare tanto in altri compositori contemporanei quanto nella musica elettronica di quegli artisti che vi ho appena citato. I miei progetti futuri vanno proprio in questa direzione, ossia nel cercare di far incontrare la performatività della musica elettronica con le esigenze della musica colta. Mi è capitato infatti di vedere che alcuni musicisti alle prese con una parte elettronica in un concerto fossero completamente slegati dai restanti esecutori o dalla musica stessa, come se il loro gesto, la loro stessa performatività, non avessero niente a che fare con la musica che stavano eseguendo; vorrei lavorare per cambiare questa tendenza attraverso i miei prossimi lavori.
NC: Con il tuo teatro musicale ha dato un nuovo contributo alla musica di tradizione italiana, quella operistica, un genere che, per fortuna, in Italia non ha mai sofferto la scarsità di iniziative. Viene da chiedersi comunque quale sia la sua strada futura, e, insieme, dove stia andando la musica dei nostri giorni. Qual è l’idea di Vittorio Montalti?
VM: È una domanda veramente difficile, alla quale non credo di saper rispondere. È sicuramente vero che l’opera non è mai stata trascurata dai compositori italiani – ricordo che già i miei maestri, alla mia età, ne erano attratti, certo in modi diversi e ciascuno con le sue caratteristiche. Se parliamo poi di commistioni fra generi, fra colto e popolare, anche in questo caso non credo ci sarà una discontinuità con il passato: i compositori che hanno interesse a farsi influenzare dalle musiche più diverse ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Credo invece che potrebbe esserci una diversa attenzione alla musica elettronica, come nel mio caso, magari esplorando la performatività dell’esecutore. Quel che è certo è che non ci sarà una vera e propria rottura con il passato, anzi, la musica elettronica e in generale la musica contemporanea cercano sempre di più un rapporto con la storia, che sia Beethoven o Rossini.
Vittorio Montalti quindi non è un postmoderno. Potremo forse chiamarlo neoclassico?