Metropolis, ossia il teatro musicale
Metropolis di Fritz Lang torna sul grande schermo: il cinema fiorentino La Compagnia lo accoglie in quanto terzo film proposto dal programma regionale di educazione al linguaggio audiovisivo Lanterne Magiche nell’ambito della rassegna “Cinema, scuola, città: un pensiero senza confini”. Tra i cinque titoli che verranno proiettati dal 9 dicembre 2021 al 6 aprile 2022, il capolavoro di Fritz Lang è simbolo del cinema espressionista e modello per quello di fantascienza.
Oltre a ciò, Metropolis è anche un interessante caso di studio per indagare i rapporti che intercorrono tra film e musica. Questa intersezione, specchio di quella ulteriore tra filmologia e musicologia, ha dato origine infatti alla disciplina della “musica per film”, sulla quale è recentemente tornato a parlare Roberto Calabretto e che trova alle proprie origini casi di studio illustri come, ad esempio, il Mascagni di Rapsodia satanica.
Musica, dramma e cinema
Per indagare il rapporto tutt’altro che ingenuo tra musica e video, si potrebbe leggere il film di Lang come se fosse teatro musicale dato che, in quest’ultimo, la «musica è il fattore primario che costituisce il dramma in quanto tale». Le parole di Carl Dahlhaus paiono assumere così la forma del paradigma a noi utile per attenzionare e pesare lo statuto del musicale in un oggetto eminentemente visivo quale è il prodotto filmico.
Proponendo questa ipotesi di lettura, però, non si sta di certo ignorando il rapporto – spesso problematico – tra cinema e teatro musicale: fin dalla sua nascita, il cinema si è letteralmente sovrapposto al teatro mutuandone – ma c’è chi direbbe “saccheggiandone” – riti, luoghi, poetica, pubblico, maestranze e autori. Nello specifico, gran parte di compositori e pubblico passarono dal teatro al cinema, segnando inevitabilmente il decentramento del primo nella vita culturale di quel periodo. Il teatro musicale a sua volta, però, non subì passivamente la sorte assegnatagli dal nuovo arrivato: dalla nascita del cinema trovò il pretesto per promuoversi come presidio di liveness, l’essenza di copresenza da sempre tallone d’Achille del cinema. Paradossalmente, il teatro acquistò così una nuova linfa “per contrasto” rispetto al cinema, quest’ultimo impossibilitato – almeno in quel momento – a restituire una performance live e costretto invece a proporre sempre una registrazione del già accaduto. L’incontro tra arte performativa e video non fu dunque solo di tipo oppositivo: il cinema, nella volontà di impossessarsi di quell’autorità culturale che il teatro aveva conquistato in centinaia di anni, decise di “inaugurarsi” mettendo in video il teatro musicale stesso. Va consolidandosi così una vera e propria storia mediale del teatro musicale il cui prodotto di punta sarà il “film-opera”, un nuovo oggetto di studio dotato di una propria poetica, estetica ed ermeneutica.
Lungi dunque dall’ignorare le specificità di due media tanto diversi e del loro fecondo quanto problematico rapporto, l’ipotesi di leggere un film come teatro musicale è idonea al solo scopo di introdurci alla comprensione di quanto la musica incidesse sul costituirsi del dramma filmico, permettendoci di guardare al compositore di musica per film non più solo come «autore delle musiche» ma anche come «autore del dramma», come ricorda Lorenzo Bianconi a proposito della figura dell’operista.
Tale ipotesi di lettura, però, risulta ideona principalmente al cinema muto: il cinema sonoro è infatti, come afferma Ricciotto Canudo, «una nuova religione» che ribalta il rapporto fino a quel momento instauratosi tra pellicola e partitura. Se nel cinema muto il compositore era chiamato a creare una vera e propria opera dotata di un proprio livello d’autonomia estetica, con il cinema sonoro tutto ciò si perde sotto gli episodi sempre più estesi dei dialoghi parlati che relegano la musica ad essere sempre più sfondo acritico della pellicola – va esaurendosi dunque un’arte e un mestiere di cui Metropolis non è solo presidio, ma anche risultato finale prima del declino.
Addentrandoci dunque nell’analogia con il teatro musicale, basterebbero anche soltanto poche informazioni generali per motivarla: Metropolis possiede una partitura composta ex novo – con tanto di numero d’opus – che accompagna i ben 153 minuti di film attraverso una struttura in tre atti regolata da un fitto apparato leitmotivico.
Approfondendo queste caratteristiche, la durata stessa del film – e della partitura – assume quindi dimensioni “operistiche”: Hugo Riesenfeld nel 1926 sosteneva che «There is also this difficulty: the average a super-film! Which lasts about two hours, requires as much music as an opera!». Pur non riferendosi al film di Lang – che sarebbe uscito solo l’anno successivo –, Riesenfeld registra la tendenza del cinema muto ad andare verso forme simili a quelle del melodramma.
La musica di Huppertz
È da notare inoltre che l’autore della musica, decidendo per un numero d’opera, le riconosce una dignità estetica: Metropolis op. 29. Il compositore in questione è Gottfried Huppertz (11.03.1887 – 7.02.1937) che, formatosi in una tradizione prettamente accademica, studia al Conservatorio di Colonia e nel 1920 debutta sul palcoscenico come cantante e direttore d’orchestra. La sua prima composizione è Rankende Rosen dedicata all’attore Rudolf Klein-Rogge, ex marito di Thea von Harbou la quale sarà poi moglie di Lang nonché autrice del romanzo da cui è tratto Metropolis. Come probabilmente già intuito, tra Fritz, Gottfried e Thea si instaura un particolare sodalizio che ha le sue origini a Berlino, città che nel 1920 ospita il primo incontro tra i tre artisti impegnati successivamente in Die Nibelungen (1924), Il Dr. Mabuse (1922), Quattro intorno a una donna (1921) e L’inafferrabile (1928).
Oltre alla lunghezza e all’impegno estetico, Metropolis op. 29 condivide alcune caratteristiche strutturali con il teatro musicale: i tre atti in cui è divisa la partitura (il Prologo per la prima metà del film, un breve Intermezzo e infine il Furioso per le scene conclusive) sono regolati da un denso apparato leitmotivico che ci porta sempre più vicini al “comportamento” della musica all’interno del teatro musicale, e dunque alla disciplina della drammaturgia musicale così delineata da Carl Dahlhaus:
Il concetto di “drammaturgia musicale”, lungi dall’essere innocentemente descrittivo, sottintende una tesi nient’affatto ovvia. La tesi è questa: l’opera in musica può essere – ma non sempre è – un dramma musicale, dove la musica è il fattore primario che costituisce il dramma in quanto tale, e non già un fattore secondario che s’aggiunge ad un dramma fondato su presupposti diversi, extramusicali.
Puntando a questo livello d’autorialità, la musica in Metropolis ci dirà sempre qualcosa in più rispetto a ciò che vediamo, allontanando l’idea dell’essere rinforzo acritico di qualcosa già detto dall’immagine. Nello specifico, questo meccanismo è reso attraverso il sistema – tutto wagneriano – dei leitmotiv: a ogni scena o personaggio viene assegnato un tema musicale che ci informa di alcune caratteristiche specifiche. Con questo non intendiamo che il tema venga scelto arbitrariamente o per “consonanza affettiva” ma che, al contrario, la sua struttura si confà a quella psicologica del personaggio, finendo per aggiungere caratteristiche di cui non saremmo informati se non attraverso ciò che ascoltiamo.
I temi
Un caso emblematico è rappresentato dal personaggio di Maria, simbolo della ribellione della classe operaia contro la città alta, e duplicata per questo in un robot dallo scienziato Rotwang; quest’ultimo istruirà però la falsa-Maria alla distruzione della città per vendetta contro il suo padrone Johann Fredersen. Trovandoci dunque con due personaggi – la vera Maria e il suo doppio robotico –, ritroveremo nella partitura anche due temi: tema di Maria e tema di falsa-Maria.
Ascoltiamo per la prima volta il tema di Maria quando la giovane donna si reca ai piani alti della città per muovere a compassione qualcuno degli altolocati. Il suo sguardo carico di dolcezza colpisce Freder – figlio di Johann Fredersen, capo della città – che decide di scendere nel sottosuolo per osservare cosa succede. Il tema in Re maggiore è caratterizzato da lineare dolcezza e la ripetizione dello stesso avviene senza alcuna variazione, restituendoci così un personaggio trasparente e affidabile poiché immutabile e risolto. Freder si innamora infatti immediatamente della giovane e il rintocco del triangolo ci segnala la scintilla d’amore. Senza questo tema, la scena non avrebbe il senso giusto: gli occhi strabuzzati e il viso scavato di Freder alla vista di Maria potrebbero farci pensare, più che a un innamoramento, a un vero e proprio momento di terrore.
Il tema di falsa Maria, nato invece durante la creazione del robot, è costituito da tre unità tematiche. Proprio come il tema di Maria, la prima unità consta di otto battute, rimandando così alla comune “genetica” che lega i due personaggi. Il robot è però anche specchio del desiderio amoroso di Rotwang: lo scienziato rivede in Maria la defunta Hel, moglie di Fredersen, da lui sempre amata e, tale inappagabile struggimento, viene restituito dalla sesta ascendente che instilla nella falsa-Maria l’arte della seduzione. Nella seconda unità tematica rintracciamo il ritmo di foxtrot che si svilupperà nella celeberrima danza al nightclub Yoshiwara; il ricorso al jazz mette in luce la degenerazione dei comportamenti collettivi a cui porterà l’operato della falsa-Maria, assecondando dunque la percezione che del jazz si aveva in quel momento rispetto alla tradizione eurocolta. L’ultima unità tematica è una citazione dell’incipit del Dies Irae: la sequenza della messa dei defunti che descrive il giorno del Giudizio e che fa di Maria la grande meretrice di Babilonia.
Il tema di falsa-Maria ci rende partecipi dunque di un sottile gioco di significazione: la prima unità tematica ci ricorda il legame con la vera Maria e ci informa dell’amore di Rotwang per Hel, la seconda ci prepara alla deviante scena della danza e la terza ci offre un presagio di morte imminente. Oltre a questi contenuti – a cui perveniamo solo attraverso la musica –, è sempre solo attraverso di essa che ci vengono offerte le qualità caratteriali – seducente, deviante e mortifera – di falsa-Maria e delle quali le immagini non riescono a dirci nulla.
In conclusione Metropolis, letto nell’analogia con il teatro musicale, permette di aprire una finestra sull’apice di un tipo di rapporto tra immagine e musica che il film, dall’avvento del sonoro in poi, non avrà più. In questo senso, il film di Lang si fa così custode di una pratica, quella della composizione musicale legata al cinema muto, che arrivata al 1927 – anno di Metropolis ma anche del primo film sonoro – rappresenta da una parte il risultato finale di un’estetica e di una professione, e dall’altra il loro tramonto definitivo.
Matteo Chiellino